Se c’era un paese, nei lontani, favolosi anni Settanta, nel quale i fricchettoni, durante le cicliche peregrinazioni in oriente, si trovavano a completo loro agio, ebbene, quello era l’Afghanistan: un paese bellissimo, di una bellezza selvaggia, popolato da un’umanità gentile, affabile, ricca di umorismo e di curiosità fanciullesca, e priva di violenza (non ricordiamo un solo episodio inquietante o minaccioso nel mese che vi trascorremmo), sempre pronta a darti una mano oppure a rispondere, con un sorriso disarmante, alle domande che non riuscivano capire.
Non ci si poteva non innamorare di quelle terre, attraversandole su sconquassate corriere, accompagnati per lunghi tratti dalle colorate carovane del popolo Kuçi, dalle loro donne bellissime, coperte di gioielli meravigliosi, e non da veli, né tanto meno da burka, impegnate solo a badare ai loro armenti, agli asini, ai cavalli, ai cammelli, senza preoccuparsi di sottostare, nella libertà di quegli spazi infiniti, a regole che non potevano e non volevano subire.E la dolcezza di quelle sere estive, con i letti di corda portati in strada e famiglie ricche di bambini appollaiate all’afghana, come si diceva, su traballanti sedie di paglia.
Non è l’Afghanistan che abbiamo conosciuto, quello che ritroviamo drammaticamente nelle prime pagine dei giornali. Un paese solcato da guerre tribali, occupato da truppe straniere, militarizzato in ogni aspetto della vita quotidiana, popolato di burka e giovani donne alle quali è vietato perfino frequentare le scuole. E dove può succedere che una folla di uomini, fanatizzati da una lettura del Corano ripiombata nell’oscurità, uccida a calci e pugni una ragazza accusata (ingiustamente si saprà poi) di avere bruciato pagine del Libro. E, per la barbara legge del taglione, se lei ha bruciato, anche il suo corpo deve essere bruciato. E così è stato.
Ma non sempre, per fortuna, le cose vanno come vorrebbero coloro che della parola di un profeta hanno fatto un codice giuridico tanto spaventosamente assurdo quanto disumano. A quelle donne a cui si vorrebbe impedire addirittura di partecipare alla sepoltura dei propri cari, a quelle stesse donne non è stato possibile opporsi. E loro, le donne, tutte insieme, numerose e determinate, hanno infranto uno dei mille tabù che ne condizionano l’esistenza, accompagnando la loro sorella all’ultima dimora. E nel gridare la loro rabbia sembravano avvertire i loro “padroni” che di padroni non ne vogliono più.
Arriva come una apparizione inaspettata, l’immagine di quei volti, incuranti dei veli scesi a scoprire i capelli, la bara sostenuta a braccia, lo sguardo fiero come a dire giù le mani, almeno da qui!
Forse, anzi certamente, qualcosa si sta muovendo, e chissà che il paese degli indomabili afghani non torni ad essere quel posto nel quale anche una semplice, meravigliosa notte stellata sembrava aprirti le porte del paradiso.
Massimo Ortalli, Cristina Valenti
L’immagine di questa spigolatura
Kabul, 22 marzo 2015. Le donne afghane portano la bara di Farkhunda fino alla sua tomba, dove la copriranno loro stesse di terra, sfidando l’inviolabile tradizione del Paese.