RICORRENZE: Roberto Roversi (Bologna, 28 gennaio 1923 – Bologna, 14 settembre 2012) è stato uno scrittore, poeta, giornalista e libraio italiano, in gioventù partigiano, dal 1948 al 2006 gestore della libreria Palmaverde di Bologna, autore di versi che sono anche diventati testi di canzoni messe in musica ed eseguite da artisti come Lucio Dalla, Francesco De Gregori e gli Stadio; fu anche direttore del quotidiano comunista Lotta Continua.
“Corre come corre il cavallo bianco della morte.
Ho passato la vita fra i libri
senza scriverne uno
pochi libri ho letto dal principio alla fine perché pioveva la cenere
allungavo la mano i fogli bruciavano
silenziose parole cadevano
la primavera non è mai troppo lontana.
Non isolarsi ma ascoltare. Ascoltare.”
“Roberto Roversi è uno di quei poeti che a rileggerne le poesie ti fa dire sottovoce che avresti voluto scriverle tu, un commento ch’è il superlativo ammirato di bello, se così si può dire. Un uomo che dai suoi ritratti appare sempre diverso e pure incapace di tradirsi, che è stato tutto quello che un uomo può essere nello spazio ristretto di una vita. Partigiano, antiquario, giornalista, scrittore, autore di canzoni, sceneggiatore teatrale. E soprattutto poeta, coscienza critica e viva durante il decorso politico italiano che dal sonno del fascismo ci ha condotti alla veglia incosciente del berlusconismo, passando per qualche breve guizzo sinistroide cronicamente monco. Ma anche libraio sui generis, nella via dei Poeti della sua “città di pietre morse dalla nebbia“, tra l’amore per i “libri-cane, i più umili, bastardi, stazzonati, mogi, randagi“ e l’odio per una certa editoria, per quella clientela-tarlo a cui non vendeva i libri perché ne era nemica.
Qualcuno, per la sua maniacale passione per i libri, l’ha paragonato a Kien, il bibliomane di Autodafé di Elias Canetti, che animava i libri e ne supponeva le straordinarie vite segrete. E certo non doveva essere andato troppo lontano, a rileggere una delle piccole confessioni di Roversi: “Credo che i libri, i dischi debbano continuare a girare, a trovare nuovi destini. Mi sta benissimo che vengano messi in vendita. Se ne devono andare per la loro strada, con un passato e un futuro. L’ho imparato fin dal mio primo grande incontro con il catalogo delle opere raccolte da Theodor Mommsen, lo storico. Capii che era come per le persone: ci vuole aria, ci vogliono incontri”.
Un amore sconfinato e paterno, dunque, per i libri, anime di carta, tanto che a un certo punto, mentre gli editori si sfidavano all’asta per ottenere i diritti delle sue opere, s’era messo a stamparle in ciclostile, fuori dal circuito ufficiale, e le regalava a chi gli piaceva come si fa con i fiori, con i bei pensieri, con le parole astratte e leggere che sanno farsi gesto” (Luisa Rinaldi 2015)
Adesso che vado a finire
vi saluto addio
libri libretti miei. Cari adorati. Io
non ho altri amici che voi
veri sinceri.
Quanti anni insieme
in un silenzio di opere garbate
bastava che allungassi la mano
e suoni s’alzavano di liete campane
nonché quel bisbigliare notturno
che da solo potevo ascoltare. Addio
per adesso non vi abbandono lo giuro
non vi abbandono affatto
sotto le unghie del gatto.
(Da Libri e contro il tarlo inimico 2013)
Patria
Patria è una parola che mi cammina sul cuore.
E poco mi importa se i laici cittadini del mondo
possono irridere presuntuosi e arroganti.
Patria è la terra in cui riposa mio padre
in cui riposa mia madre, in cui riposa mio figlio.
E in cui anche mia moglie e io, molto
avanti a sdipanare il filo rosso della vita,
andremo lenti come la nebbia costante sulla
nostra amata pianura
a confonderci in una polvere d’oro
fra api fiori (e fieno)
(come avere, dopo il lavoro, quieto riposo
dalla lunga fatica).
Patria consolami.
La Patria non chiama ma dà. Si fa riconoscere
subito per i benefici
di commozione dei sentimenti che suscita senza essere affranta.
La sento viva in mano. Non mi lascia mai
confortandomi con il
racconto delle sue memorie e
delle sue avventure, delle sue cento sconfitte, delle sue vittorie.
È tutta cielo e mare.
Nubi bianche su alte montagne.
È la voce di bambini che chiaman la madre.
È il rumore di un treno sulla pianura.
È l’Italia ferita e altera.
Sono io. Siamo noi.
Qualche marmo. Comune destino. (settembre 2011)
Una scelta di versi tratta da diverse raccolte di Roberto Roversi
Da http://www.robertoroversi.it/
Le navi di Ulisse corrono verso la tempesta che l’occhio
non vede l’orecchio ascolta i lampi
ogni nave arriva al naufragio al porto vicino il
porto è sempre agognato.
È la voglia di vivere che salverà il mondo.
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Mentre ero assorto nei miei pensieri
è venuto qualcuno che sembrava mi volesse
far prigioniero.
Queste nebbie all’improvviso
oggi decidono l’inverno
e la sapienza della vita
da polvere ritorna sasso.
Mi devo pentire per tre cose
l’acqua il sangue il fuoco
ma non per l’ombra più saggia
di quella che non induce a dormire.
L’ombra del risveglio.
E sento grande traffico nel cielo.
Anche la cometa guarda, aspetta
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Vedere come trapassa il bene dal male.
La cruna dell’ago essere un lago
per il cammello.
Il deserto essere un mare salato.
L’oceano non essere mai stato
navigato.
Tremila anni
anche di piccoli affanni
essere un giorno. Un’ora. Niente.
Essere un dente strappato.
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Il tempo è lungo
non finisce mai
come un giorno che comincia e non ha fine
e ti sei alzato
poi non viene mai la sera
e a letto non puoi andare
anche se sei stanco
e ti viene da sbadigliare
addormentato.
Il tempo fa diventare vecchi
i capelli da neri a bianchi.
Il tempo è lungo come il cielo
e anche il cielo non finisce mai.
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Stretti in una scansia fissata al muro
di una biblioteca proprietà di un cardinale
libri rari inglesi nel silenzio
di una città italiana
si scontrano: Cos’è la polvere del tempo?
gli occhi di un saggio che strisciano sul foglio
come una formica?
è la polvere bianca portata da un fiore?
è un rapido bagliore?
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Che cosa ci riporta a casa, la voglia di tornare
per sempre, navi morte, al porto
dell’ultimo uragano
o la paura di partire
ancora, di non sapere più tornare?
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Bruciano uomini e libri
bruciano i libri e le cose
(le biblioteche sono polvere grigia bagnata)
bruciano i ponti le case le tele
dipinte da vecchi maestri impazziti
bruciano le parole ai bambini che guardano il mondo
fra missili ogive sigarette vendute nei porti.
Vedo la morte regina del mondo ruotare sul mondo
per la violenza del mondo
nel silenzio del mondo
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La vita in questa terra asciutta ed arsa
trascorre senza canti,
solo lungo i pini vanno i pianti
di fanciulli lontani.
La vita è vana: un suono di campana
non s’ode nel mattino degli ulivi,
il vento lieve all’ombra dei declivi
si apre in viso alle spigolatrici.
Muore il vecchio di sera nella casa
e la sua morte è senza amaritudine,
dondola nella sospesa solitudine
il pianto della moglie:
ed ogni giorno è uguale all’altro giorno
ed ogni sera alla sera passata.
Trascorre il tempo e va senza ritorno
e lascia l’uomo nella dura giornata:
se l’uomo muore, muore la sua vita
se l’uomo vive, muore la sua anima.
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Signore, perché l’uomo deve morire?
La donna è timida come un ramo di pesco
e i soavi fanciulli dal docile canto
sul petto del padre riposavano lieti:
ma nel pianto dolcissimo del grano
l’uomo muore e l’anima è turbata.
Ansia ci prende della nostra vita,
vana come l’acqua dei canneti.
Per i prati, sui fieni, lungo i margini
freschi dei fiumi, mesto vento:
e su noi, come il volo degli uccelli
la tristissima morte.
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Elegia per una vita perduta
Ora i querceti della nostra terra
si distendono al vento del tramonto,
nel cielo, solitario, vola un passero
al lontano silenzio della valle:
pure la vita fugge con gli anni
ormai smarriti all’ombra della morte.
(Per il fanciullo, il vento della notte
è come il canto dei rematori
– fresca foglia di ramo – e reca pace:
e l’andare del tempo non l’accora.
Ma per l’uomo il vento non ha voce).
Vita, lento fiume rapinoso!
tu scorri nel rimpianto del passato:
e come il volo improvviso degli uccelli
fugge ogni nostro pensiero.
Ora il vento che udimmo da fanciulli
cantare il sonno verde alle campane,
addormentare l’anima nel petto
agli uomini tra i fieni,
si trascina stanco sugli erbai.
La vita ci conduce verso morte,
all’antica sorella senza nome.
Nel 1973 Lucio Dalla inizia con Roberto Roversi una collaborazione che attraverserà 4 anni e tre album. Tale trilogia è composta da “Il giorno aveva cinque teste” del 1073, “Anidride solforosa” del 1975 e da “Automobili” del 1976
Lucio Dalla- Passato Presente (1973) da “Il giorno aveva cinque teste”. Roberto Roversi 10 canzoni per Dalla.