Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri e noto con il solo nome Dante, della famiglia Alighieri (Firenze, tra il 22 maggio e il 13 giugno 1265 – Ravenna, 14 settembre 1321), è stato un poeta, scrittore e politico italiano.
Dante Alighieri nasce da una famiglia della piccola nobiltà fiorentina. Nel 1274, secondo la “Vita Nuova”, vede per la prima volta Beatrice (Bice di Folco Portinari) della quale si innamora subito perdutamente. Dante ha circa dieci anni quando muore la madre Gabriella, la «madre bella». Nel 1283 anche suo padre Alighiero di Bellincione, commerciante, muore e Dante a 17 anni diviene il capofamiglia.
Il giovane Alighieri segue gli insegnamenti filosofici e teologici delle scuole francescana (Santa Croce) e domenicana (Santa Maria Novella). In questo periodo stringe amicizie e inizia una corrispondenza con i giovani poeti che si fanno chiamare «stilnovisti».
A 20 anni sposa Gemma Di Manetto Donati, appartenente a un ramo secondario di una grande famiglia nobile, dalla quale avrà quattro figli, Jacopo, Pietro, Giovanni e Antonia.
Nel 1292, due anni dopo la morte di Beatrice, comincia a scrivere la “Vita Nuova”. Dante si consacra così molto presto completamente alla poesia studiando filosofia e teologia, in particolare Aristotele e San Tommaso. Rimarrà affascinato dalla lotta politica caratteristica di quel periodo e costruirà tutta la sua opera attorno alla figura dell’Imperatore, mito di un’impossibile unità. Tuttavia nel 1293, in seguito a un decreto che escludeva i nobili dalla vita politica fiorentina, il giovane Dante è costretto ad attenersi alla cura dei suoi interessi intellettuali.
Nel 1295 un’ordinanza decreta che i nobili riottengano i diritti civici, purché appartenenti ad una corporazione. Dante si iscrive a quella dei medici e dei farmacisti, la stessa dei bibliotecari, con la menzione di «poeta». Quando la lotta tra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri si fa più aspra, Dante si schiera col partito dei Bianchi che cercano di difendere l’indipendenza della città opponendosi alle tendenze egemoniche di Bonifacio VIII Caetani, Papa dal dicembre 1294 al 1303.
Nel 1300 Dante viene eletto tra i sei «Priori» – custodi del potere esecutivo, i più alti magistrati del governo che componeva la Signoria – che, per attenuare la faziosità della lotta politica, prendono la difficile decisione di fare arrestare i più feroci leader dei due schieramenti. Nel 1301, proprio mentre a Firenze arrivava Charles de Valois e il partito dei Neri prendeva il sopravvento (sostenuto dal papato), Dante viene chiamato a Roma alla corte di Bonifacio VIII. Iniziano i processi politici: Dante, accusato di corruzione, viene sospeso dai pubblici uffici e condannato al pagamento di una pesante ammenda. Poiché Dante non si abbassa, al pari dei suoi amici, a presentarsi davanti ai giudici, viene condannato alla confisca dei beni e «al boia» qualora si fosse fatto trovare sul territorio del Comune di Firenze. E’ così costretto a lasciare la sua città con la coscienza di essere stato beffato da Bonifacio VIII, che l’aveva trattenuto a Roma mentre i Neri prendevano il potere a Firenze; Bonifacio VIII si guadagnerà così un posto di rilievo nei gironi dell'”Inferno” della “Divina Commedia”.
A partire dal 1304 inizia per Dante il lungo esilio. Redige il Convivio (1304-1307), il trattato incompiuto composto in lingua volgare che diventa una summa enciclopedica di sapere pratico. Quest’opera, è una sintesi di saggi, destinati a coloro che, a causa della loro formazione o della condizione sociale, non hanno direttamente accesso al sapere. Vagherà per città e Corti secondo le opportunità che gli si offriranno e non cesserà di approfondire la sua cultura attraverso le differenti esperienze che vive.
Nel 1306 intraprende la redazione della “Divina Commedia” alla quale lavorerà per tutta la vita. Quando inizia «a far parte per se stesso», rinunciando ai tentativi di rientrare con la forza a Firenze con i suoi amici, prende coscienza della propria solitudine e si stacca dalla realtà contemporanea che ritiene dominata da vizio, ingiustizia, corruzione e ineguaglianza. Nel 1308 compone un trattato in latino sulla lingua e lo stile: il “De vulgari eloquentia”, nel quale passa in revisione i differenti dialetti della lingua italiana e fonda la teoria di una lingua volgare che chiama «illustre», che non può essere uno dei dialetti locali italiani ma una lingua frutto del lavoro di pulizia portato avanti collettivamente dagli scrittori italiani. È il primo manifesto per la creazione di una lingua letteraria nazionale italiana.
Nel 1310 con l’arrivo in Italia di Enrico VII di Lussemburgo, Imperatore romano, Dante Alighieri spera nella restaurazione del potere imperiale, che gli permetterebbe di rientrare a Firenze, ma Enrico muore. Dante compone “La Monarchia”, in latino, dove dichiara che la monarchia universale è essenziale alla felicità terrestre degli uomini e che il potere imperiale non deve essere sottomesso alla Chiesa. Dibatte anche sui rapporti tra Papato e Impero: al Papa il potere spirituale, all’Imperatore quello temporale. Verso il 1315, gli viene offerto di ritornare a Firenze. Il suo orgoglio ritiene le condizioni troppo umilianti: rifiuta con parole che rimangono una testimonianza della sua dignità umana: «Non è questa, padre mio, la via del mio ritorno in patria, ma se prima da voi e poi da altri non se ne trovi un’altra che non deroghi all’onore e alla dignità di Dante, l’accetterò a passi non lenti e se per nessuna siffatta s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. Né certo mancherà il pane».
Nel 1313 , alla morte improvvisa dell’imperatore, Dante accolse l’invito di Cangrande della Scala a risiedere (insieme ai propri figli) presso la sua corte di Verona. L’amicizia e la stima tra i due uomini fu tale che Dante esaltò, nella cantica del Paradiso – composta per la maggior parte durante il soggiorno veronese, il suo generoso patrono in un panegirico per bocca dell’avo Cacciaguida.
Dante a Ravenna.
Dante, per motivi ancora sconosciuti, si allontanò da Verona per approdare, nel 1318, a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta. I critici hanno cercato di comprendere le cause dell’allontanamento di Dante dalla città scaligera, visti gli ottimi rapporti che intercorrevano tra Dante e Cangrande. Augusto Torre ipotizzò una missione politica a Ravenna, affidatagli dallo stesso suo protettore; altri pongono le cause in una crisi momentanea tra Dante e Cangrande, oppure nell’attrattiva di far parte di una corte di letterati tra i quali il signore stesso (cioè Guido Novello), che si professava tale. Tuttavia, i rapporti con Verona non cessarono del tutto, come testimoniato dalla presenza di Dante nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la Quaestio de aqua et terra, l’ultima sua opera latina. Gli ultimi tre anni di vita trascorsero relativamente tranquilli nella pacifica città romagnola, durante i quali Dante creò un cenacolo letterario frequentato dai figli Pietro e Jacopo e da alcuni giovani letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini. Per conto del signore di Ravenna svolse occasionali ambascerie politiche, come quella che lo condusse a Venezia. All’epoca, la città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi continui alle sue navi da parte delle galee ravennati, e il doge, infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello; questi, ben sapendo di non disporre dei mezzi necessari per fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui davanti al Senato veneziano. Gli studiosi si sono domandati perché Guido Novello avesse pensato proprio all’ultracinquantenne poeta come suo rappresentante: alcuni ritengono che sia stato scelto Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi signori di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per comporre le divergenze in campo.
L’ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta. Di ritorno dalla città lagunare, infatti, Dante contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio. Le febbri portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli.
Nella “Divina Commedia” Ravenna , le sue famiglie (Da Polenta, Traversari, Anastagi) i suoi lidi (lito di Chiassi, lito adriano) , la sua pineta (la divina foresta spessa e viva), sono più volte citati.
Francesca Da Polenta
Inferno V, 97-99
Siede la terra dove nata fui
sulla marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Ravenna
Inferno XXVII, 40-42
Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
Le famiglie nobili Ravennati
Purgatorio XIV, 107-108
La casa Traversara e li Anastagi
(e l’una gente e l’altra è diretata)
Il lito di Chiassi
Purgatorio, XXVIII, 1-21
Vago già di cercar dentro e dintorno
La divina foresta spessa e viva,
Ch’a li occhi temperava il novo giorno,
Sanza più aspettar, lasciai la riva,
Prendendo la campagna lento lento
Su per lo suol che d’ogne parte auliva.
Un’aura dolce, sanza mutamento
Avere in sé, mi ferìa per la fronte
Non di più colpo che soave vento;
Per cui le fronde, tremolando, pronte
Tutte quante piegavano a la parte
U’ la prima ombra gitta il santo monte;
Non però dal loro esser dritto sparte
Tanto, che li augelletti per le cime
Lasciasser d’operare ogne lor arte;
Ma con piena letizia l’ore prime,
Cantando, ricevieno intra le foglie,
Che tenevan bordone a le sue rime
Tal qual di ramo in ramo si raccoglie
Per la pineta in su ‘lito di Chiassi,
Quand’Eolo scilocco fuor discioglie.
Cesare
Paradiso, VI, 52-63
Sott’esso giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a qual colle
Sotto ‘l qual tu nascesti parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto ‘l ciel volle
Redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna,
E ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna,
E saltò Rubicon, fu di tal volo,
Che nol seguiteria lingua né penna.
San Pier Damiano
Paradiso, XXI, 106-126
«Tra’ due liti d’Italia surgon sassi
E non molto distanti a la tua patria,
Tanto che’ troni assai suonan più bassi,
E fanno un gibbo che si chiama Catria,
Di sotto al quale è consacrato un ermo
Che suole esser disposto a sola làtria».
Così ricominciommi il terzo sermo;
E poi, continüando, disse: «Quivi
Al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
Che pur con cibi di liquor d’ulivi
Lievemente passava caldi e geli
Contento ne’ pensier contemplativi.
Render solea quel chiostro a questi cieli
Fertilemente; e ora è fatto vano
Sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
E Pietro Peccator fu’ ne la casa
Di Nostra Donna in sul lito adriano.
Poca vita mortal m’era rimasa,
Quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
Che pur di male in peggio si travasa.
La “Donna in sul lito adriano” è la “Madonna Greca” patrona della città di Ravenna (oggi nella Chiesa di santa Maria in Porto). Si deve proprio a questa Madonna l’aver reso saldo nel tempo il legame tra Ravenna e l’Oriente. La leggenda infatti vuole che il bassorilievo marmoreo proveniente da Costantinopoli trasportato da due angeli, venisse adagiato sulle rive del lido adriano nei pressi di Classe fin dall’8 aprile 1100. Ad accoglierlo ancor prima del sorgere dell’alba era un nobile ecclesiastico, Pietro degli Onesti, che coronava così un voto fatto alla Madonna per lo scampato pericolo in mare durante una tempesta in un viaggio di ritorno dalla Terra Santa. Per tale motivo, aveva già fatto innalzare la chiesa di S. Maria in Porto fuori, nella quale collocò la sacra immagine che qui rimase fino al XVI secolo, per essere poi trasferita nell’omonima chiesa entro le mura della città. Meta di molti pellegrinaggi e visitata da illustri personaggi, quali Dante Alighieri che nella Divina Commedia, al Cantico XXI del Paradiso, la ricorda scrivendo “in quel loco fui io Pietro Damiano, e Pietro peccator fu nella casa di Nostra Donna in sul lito adriano” ( Dante utilizza la parola “adriano” per “adriatico”). L’immagine della Madonna Greca, venerata nella basilica-santuario di Santa Maria in Porto, è un delicato bassorilievo bizantino scolpito su marmo pario, che rappresenta la Madonna in atteggiamento di preghiera con le braccia alzate. Ai lati del capo, circondato da un’aureola, due scudi rotondi recano inciso a lettere greche il monogramma “Madre di Dio”. La Vergine indossa una ricca tunica, stretta da un cingolo attorno ai fianchi, sulla quale sono distribuite undici piccole croci di metallo dorato.
A “Lido Adriano Porta D’Oriente” è dedicato il libro su Lido Adriano di Laura Gambi e Luigi Dadina, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2008 nel cui prologo si parla del mito fondativo di Lido Adriano e della Madonna Greca citata da Dante.