Ho conosciuto le poesie di P.P.P. a diciannove anni, avevo appena iniziato la mia carriera universitaria, e la mia professoressa di letteratura italiana mi disse che nel programma d’esame avevamo “Poesia in forma di rosa”. Io Pasolini lo stimavo già da tempo, avevo visto tutti i suoi film, ma che cosa sono le nuvole? Rimane tra i miei must, con un malinconico Modugno che canta una delle canzoni, a mio parere, più poetiche e commoventi del cantautorato italiano.
Che cosa sono le nuvole?
Quando ero piccola, pensavo fossero il pavimento delle case degli angeli… Sì, forse era veramente una stupidaggine, ma era l’unica spiegazione che avevo del perché ci fossero queste immense nubi che oscuravano l’assolato cielo di Luglio durante le mie giornate sulle spiagge di Cervia.
Tornando a Pasolini devo dire che è stata una delle scoperte più belle per me, nel preciso istante in cui ho preso in mano la sua raccolta di poesie, mi si è aperto un mondo, la poesia poteva essere anche altro, e non la solita formula ABABAABB che ci propinano a scuola.
Comunque i miei studi continuavano, e, grazie a P.P.P. e ai Luther Blissett presi un bel trenta all’esame di Letteratura Italiana Contemporanea.
Decidere di studiare al DAMS di Bologna, ora come ora, è togliersi uno sfizio, alimentare quella parte sempre affamata di cultura e di conoscenza che sta tra il mio cuore e il mio stomaco, che brontola in continuazione chiedendomi qualcosa di nuovo, di altro.
Pierpaolo rimase lì, e ogni tanto andavo a scovare qualche verso che mi serviva per ragionare e collegare i miei infiniti puzzle cerebrali.
Poi, nel 2010, andai a Berlino, per la terza volta in tre anni, quella città mi ha sempre regalato nuove visioni e ispirazioni, e fu così che camminando per i grandi viali della capitale tedesca m’imbattei nel manifesto di una mostra, iniziata da pochi giorni, presso il Martin-Gropius-Bau, si tratta va di una retrospettiva su Frida Kahlo.
Un piano dedicato alla grande artista messicana, ancora poco di moda al tempo, allora decisi di andare. In verità, e con un po’ di vergogna, ammetto che cinque anni fa sapevo poco su di lei.
Frida Kahlo. Retrospektive. Il grande cartello mi dava il benvenuto in quel magnifico edificio.
Entrai.
E una delle prime cose che mi fu evidente fu che, oltre ad essere una mostra veramente vasta, era forse uno degli allestimenti più belli che avevo mai visto nei miei numerosi anni di studio e dedizione verso le arti visive.
L’esposizione era disposta in ordine cronologico, in un perfetto assetto che ti faceva capire perfettamente tutto quello che stava succedendo, di anno in anno, nella vita, interiore e non, dell’artista.
Arrivai alla sala del busto, era esposto il busto di gesso che Frida indossò per parecchio tempo, dopo una delle numerose operazioni che subì alla spina dorsale, e mi misi a piangere.
Fu incontrollato, non potevo fermare quelle lacrime di rabbia e rispetto verso una donna così fragile e forte allo stesso tempo. Invece di lasciarsi andare alla disperazione e al dolore, ella decise che voleva uno specchio sul letto per poter “abbellire” quella trappola di gesso che la costringeva all’immobilità.
Da quel momento iniziai, quasi ossessivamente, a documentarmi su questa magnifica creatura. Perché non sapevo abbastanza? Come avevo potuto ignorare una donna capace di così tanto? Fu così che mi ritrovai con la libreria invasa di libri, lettere, biografie, immagini dei suoi quadri, fotografie, e più la studiavo più mi sentivo vicina a lei.
E’ una cosa che ancora fatico a spiegarmi, ma fu così, odiai e amai Diego Rivera, come poteva tradire una donna di cotanto splendore?
Ahimè l’animo umano è fragile e debole, e come lui anche Frida si lasciò andare a non poche scappatelle, ma la giustificavo; lei amava Diego, lui era un pieno di sé, lei trovava conforto tra altre braccia, che però la facevano a loro volta soffrire e allora andava ancora in cerca di altro… un gigantesco circolo vizioso.
Forse come la sua storia.
Da quando ebbe quell’incidente, nulla fu come prima, la sua spina dorsale, il suo bacino, la sua gamba, il suo cuore. Ecco. Forse nel momento in cui lessi la sua storia, mi sentì partecipe alla sua disgrazia.
Anche a me un incidente, ventuno anni fa, cambiò radicalmente la vita; non ero direttamente coinvolta, ma persi una delle persone che amavo di più al mondo, mio padre. E forse, quella ferita, fu come essere irreparabilmente trafitta, da una sbarra di metallo dell’autobus, come successe a lei; la mia “colonna” ebbe un trauma così forte da non poter più tornare come prima, nonostante mille tentativi di miglioramento, ma la presi così, come veniva (come direbbe il Drugo dei Fratelli Cohen) e fu così anche per Frida, accettò e andò avanti, creando maestose opere d’arte.
Vi chiederete perché sono partita da P.P.P. per arrivare al Messico, beh, la risposta è semplice, guardando i quadri, inquietanti e autobiografici della Kahlo, la frase che mi riecheggia nella mente è “una disperata vitalità”.
Quella donna, quell’artista, era in grado di rappresentare scene di vero dolore, incubi profetici, scene scabrose, con dei colori a dir poco accecanti. Quel magnifico uso di colori brillanti e vivi mi ha fatto capire quanto in realtà lei stesse combattendo il dolore che la stava ingabbiando.
D’altronde sono sempre stata affascinata da artisti che sapessero trasmettere quello che provavano, e spesso il sentimento più forte e più facile da raffigurare è la sofferenza, ed è anche un sentimento che unisce il mondo intero, tra le mie classifiche di gradimento ci sono artisti pazzi, menomati o portatori di qualche deficit, ipersensibili e incompresi.
Paul Klee diceva che l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è. Nulla fu più vero. Ho sempre vissuto le forme d’arte come pieno arricchimento dello spirito, una sorta di religione pagana, capace di regalarmi grandi riflessioni e rivelazioni, ma soprattutto capace di dissetare, almeno per qualche istante, la mia continua e bulimica sete di conoscenza del mondo.
Ma quando ho iniziato a interessarmi a Frida, il mio approccio è stato differente, quasi come approfondire un’amicizia, come togliere dei veli che ricoprono una conoscenza che in realtà è già presente nel nostro inconscio, mi è sembrato di conoscere da sempre questa figura così complessa e complicata, che ha avuto la mia totale stima fin dal primo istante.
Insomma, quanti al mondo, dopo aver avuto un danno catastrofico alla schiena, aver perso due bambini con emorragie quasi mortali, aver a fianco un uomo che ragiona per soldi, successo e sesso, dopo aver subito un’amputazione al piede, riesce a dipingere quadri fortemente comunicativi, a girare il mondo esponendo la propria arte, ad avere una tresca con uno dei rivoluzionari di sinistra più influenti del mondo occidentale (Lev Trockij) e diventare, oltre che donna simbolo dello Stato del Messico, anche una delle persone più stimate dal capofila del Surrealismo, André Breton?
Lei è divenuta, almeno per me, un’eroica paladina della pittura, forse l’artista che più amo e rispetto.
Quando penso a questa formidabile artista, nasce in me un incontenibile flusso di coscienza (per dirla alla Joyce) che mi apre innumerevoli interrogativi, poi, guardando un suo quadro, una sua fotografia o leggendo sue parole tutto si calma e trovo ogni risposta.
Combattere il dolore che ci prende da dentro come un cane rabbioso che vuole divorarti, è difficile, non resta che rassegnarsi o combatterlo con tutte le forze, afferrarlo per il collo e guardarlo dritto negli occhi, per capire il suo punto debole e annientarlo.
Buddha, quando parla delle “Le Quattro Nobili Verità”, dice che nella vita degli esseri senzienti è insita la sofferenza, e individua otto tipi di dolore, e, la breve e intensa, vita di Frida ne ha contenuti almeno sei.
Ma le sue parole, così consapevoli e forti, rendevano tutta questa sofferenza combattiva, almeno ai miei occhi, capace di andare avanti, nonostante tutto.
“Perché studi così tanto? Quale segreto vai cercando? La vita te lo rivelerà presto. Io so già tutto, senza leggere o scrivere. Poco tempo fa, forse solo qualche giorno fa, ero una ragazza che camminava in un mondo di colori, di forme chiare e tangibili. Tutto era misterioso e qualcosa si nascondeva; immaginare la sua natura era per me un gioco. Se tu sapessi com’è terribile raggiungere tutta la conoscenza all’improvviso – come se un lampo illuminasse la terra! Ora vivo in un pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio. È come se avessi imparato tutto in una volta, in pochi secondi. Le mie amiche, le mie compagne si sono fatte donne lentamente. Io sono diventata vecchia in pochi istanti e ora tutto è insipido e piatto. So che dietro non c’è niente; se ci fosse qualcosa lo vedrei…” (Frida Kahlo da Lettera ad Alejandro Gomez Arias – Sett. 1926)