Nel novembre 2003 sono in Argentina. Mi sposto per centinaia di chilometri, attraverso la pampa disabitata, con corriere blu. In molte città mi aspettano uomini e donne emigrati ancora giovani dall’Emilia-Romagna, durante o subito dopo la seconda guerra mondiale.
A Bahia Blanca incontro i tre fratelli Ridolfi, Tarcisio, Marina e Alda. Abbiamo appuntamento alla Sociedad Italiana de Socorro Mutuo1, fondata il 2 aprile del 1882. Una stanza spoglia, un tavolone di legno. I tre fratelli sono pieni di vitalità, come molti altri vecchi argentini. Ci baciamo su entrambe le guance, alla maniera del Paese. Parlano l’italiano con un leggero accento spagnolo. Marina prende la parola per prima, è allegra e chiacchierona. In un racconto a tre voci ripercorrono la loro storia e quella della loro famiglia.
– Mi chiamo Marina Ridolfi, a quindici anni sono venuta all‘Argentina per colpa della guerra.
– Il mio nome è Alda Ridolfi. Nostro padre è morto trentacinque giorni prima che io nascessi. Sono partita a sette anni con mia madre e mia sorella Marina. Tarcisio, nostro fratello, invece era venuto otto mesi prima. Noi non siamo partite con lui perché la mamma aveva una gamba rigida e nel passaporto non c’era scritto. Allora abbiamo dovuto rifare tutti i documenti. Te lo ricordi Tarcisio?
– Sì, io avevo diciotto anni e partii da solo perché il mio passaporto scadeva. Da Genova, con la nave Giulio Cesare, che era era al secondo viaggio, nuova di zecca, con un lusso che pareva fossimo turisti e invece all’arrivo eravamo tutti emigranti.
Alda è più timida, è partita bambina e forse per questo le piace ricostruire legami e storie, raccontare dei parenti lasciati e di quelli trovati.
– La nostra mamma aveva un fratello a La Plata e sua sorella, la nostra zia, stava a Bahia Blanca. Quando ci scrivevano dall’Argentina, ci facevano pensare che l’oro si trovava per la strada. La mamma era vedova con tre figli e dopo la guerra ha deciso di partire, perché la nostra era una vita dura. Mia sorella Marina a quattro anni era dovuta andare a vivere dalle suore e Tarcisio a undici lavorava già come falegname.
– Eh, te lo ricordi Alda? Ho lavorato lì fino all’ultimo giorno che sono stato in Italia.
– Nostra madre invece lavorava in fabbrica, all’Arrigoni di Cesena, quindici ore al giorno. Lei era… si chiama sindacato, era molto nervosa, non viveva tranquilla. Era socialista, una donna con molto carattere, una lottatrice. Nella famiglia di nostro padre invece erano molto cattolici, nostro zio era prete.
Marina interviene per raccontare di sé. Ha gli occhi verdi, lo sguardo acceso e ironico.
– Quando siamo partite io ero una ragazzina e sempre avevo l’idea dell’avventura. La verità? Quando sono arrivata ho pianto un anno. Avevo la sfortuna che stavamo vicino al porto, le navi partivano tutto il giorno e si sentiva tuuu, tuuu.
– Anch’io Marina ero contenta di partire perché era un cambio, un’allegria. Dopo ho cominciato a vederti piangere, vedevo la mamma piangere, piangevo anch’io, ma non sapevo perché.
I tre fratelli sono nati a Cesena, a pochi chilometri dalla mia città. Marina porta con sé gli affetti della sua infanzia.
– Quello che a me è dispiaciuto di più e ce l’ho sempre avuto qui, è stato lasciare la nonna con cui ero cresciuta. E’ venuta a dirci addio alla stazione, era molto vecchia, una donna grande, con un fazzoletto nero e diceva: «I mi bùrdel ch’a’n’i vegh pjò.»2 Te la ricordi Alda?
– Sì. Mi ha dato un bacio, piangeva, se ne andava e con la mano ci faceva così. Non l’abbiamo vista più.
Nella stanza si fa silenzio. Alda abbassa la mano e guarda in basso. Penso alla mia nonna, che non faceva differenze tra i nipoti, alla Romagna delle rivolte operaie e contadine, delle prime cooperative di braccianti. Anche la mia nonna era socialista e lavorava come operaia in fabbrica. Mi raccontava delle serate a teatro con le amiche e di un calzolaio dalla bellezza straordinaria. Alda si asciuga le lacrime e Tarcisio riprende il racconto.
– Noi abbiamo vissuto con la nonna fino a quando è morto il povero babbo. Io ero il più grande, avevo dieci anni. Il babbo era malato di cuore. Vicino a casa c’era un ruscello coperto da alberi, con un canneto, dove i tedeschi avevano un deposito di munizioni. Un giorno lo costrinsero a caricare delle casse per portarle al fronte. Cadde e dopo pochi giorni è morto piangendo dai dolori. Non c’erano medicine, non c’erano dottori. Quel ricordo mi è rimasto per tutta la vita… sono molti i tedeschi qui in Argentina e io li tratto con un po’ di distanza, perché conservano quel… non so, una prepotenza, un orgoglio che hanno loro. Mio figlio si è sposato con una ragazza di discendenza tedesca, allora devo chiudere la bocca, forse sarà un castigo.
– Però è una brava ragazza, Tarcisio.
– Sì Marina, non posso dire niente.
E’ sempre Alda a riprendere il filo della storia familiare.
– Siamo stati i primi tre anni nella città di La Plata, gli italiani erano tanti, finivano tutti lì e allora gli argentini non ci guardavano bene. Parlavamo tutti il dialetto, c’erano napoletani, calabresi. L’italiano non si parlava e l’argentino ancora meno, ci si capiva usando un po’ di tutto. Nostra mamma andò a lavorare come serva in una casa e mia sorella Marina da una sarta.
– Sì, la sarta era italiana, voleva tutte ragazze italiane, eravamo quindici, uno si sentiva come in famiglia.
– Mio fratello invece lavorava da un falegname, era quello che sapeva fare. E’ vero, Tarcisio?
– Sì, lavoravo. Però era tutto a rovescio, anche nel modo di mangiare, perché da noi la minestra è primo piatto e qua era l’ultimo. Poi a me piaceva correre in bicicletta, andavo sulle colline intorno a Cesena. Ne avevo portata una da corsa, ma le strade argentine erano rozze e mi si è rotta nei primi mesi. Dopo andai a lavorare in una raffineria di petrolio tedesca, c’erano più di cinquemila persone, quasi tutti emigrati. Allora stavo un pochito più accompagnato, andavo a ballare alla Società Friulana, lì si trovavano tutti gli italiani.
– Però la gente… gli argentini…
– E’ vero, la gente la trovai un po’… non so se era disprezzo o gelosia, perché l’Italia si stava rifacendo in fretta e qua invece cominciava a peggiorare e ancora continua. Ci hanno fatto credere che l’Argentina era una delle nazioni più poderose, più ricche, più intelligenti, più tutto. Invece qua c’erano ancora case fatte di cartone, di latta. Nostro zio di La Plata era arrivato già da trent’anni, ma viveva con tutta la famiglia in una sola stanza e lì cucinavano e dormivano tutti assieme. Appena arrivato gli dissi: «Dimmi una cosa zio, in trent’anni questa è tutta l’america che hai fatto?», mi diede uno schiaffo, quello fu il ricevimento. Il folclore argentino era un po’ così: io mettevo il pigiama, mio zio diceva che era una cosa di lusso, che qua il pigiama non si usava, che ero un burocrate.
– E poi Tarcisio, a Cesena andavamo alla messa di Natale a mezzanotte, con la neve. Qua il Natale è d’estate e festeggiano con una gran mangiata tra tutte le famiglie, un asado, carne cotta ai ferri, e anche se fa quaranta gradi di caldo bevono vino e fanno sbornie.
Tarcisio ha lo sguardo malinconico e gentile. Ogni periodo della sua vita è come un mondo a sé in cui si immerge, raccontando.
– A Bahia Blanca ci siamo trasferiti nel cinquantacinque, dopo che era morto lo zio di La Plata, perché qua avevamo la zia, la sorella di nostra mamma e i cugini avevano comperato un campo. Cercavano una persona di fiducia. Mi dissero: «Tarcisio, ti offriamo il lavoro». E io: «Mamma i tuoi nipoti hanno comperato un campo e, digo, mi hanno offerto il posto. Che ti pare?». «E andiamo, così sto vicino a mia sorella».
Siamo seduti in silenzio, fuori le strade luminose di Bahia Blanca, fondata come fortificazione militare nel 1828, a fronteggiare gli attacchi degli indiani. Il giorno prima camminando per le strade semideserte di Ingeniero White, porto e zona industriale, mi aveva colpita una scritta su un muro: «Un militante no es un Heroe. Simplemente quiere vivir. Simplemente no se conforma par aceptar que otros han decidido ya de su vida, su futuro, sus modicas ambiciones y su muerte.3»
Alda siede composta, racconta poco di lei, le piace parlare dei suoi fratelli, della sua famiglia.
– Duecentocinquanta ettari e avevano bisogno di qualcuno che stesse lì, allora siamo venuti noi, ci siamo stati cinque anni. Era a sette chilometri dalla città. Era un lavoro troppo materiale. La terra non è buona, è bianca di sale. Per questo si chiama Bahia Blanca.
– Stavamo a casa dei nostri parenti e loro: «Marina devi fare da mangiare questo, questo e questo, perché te sei arrivata adesso…». E te lo dico che al principio è stato duro. Lavoravo nel campo a cavallo, perché habian4 le vacche per il latte, ci facevano formaggi, cose così. Non era lavoro per me, avevo diciassette, diciotto anni. Ho lasciato, sono venuta in città, a Bahia Blanca. Ho incominciato a studiare da infermiera.
– Io invece ero vaquero5. Stavo in sella fino a diciannove ore al giorno senza scendere. Questi cugini erano macellai, comperavano vacche al mercato e io le portavo al campo in deposito, erano quindici, diciotto chilometri. Dovevo passare in mezzo alla città con settanta, cento animali. Il giorno seguente portavo le vacche a Punta Alta al macello, che sta a trenta chilometri. La prendevo più o meno come un’avventura, perché avevo ventun anni.
– Aveva una fidanzata in ogni posto.
– Sì Marina, però dopo mi fidanzai con quella che adesso è mia moglie. Ho lasciato il cavallo nel cinquantotto. Lavoravo come camionista. Quando sono andato in pensione l’inflazione continuava, e non mi davano un peso d’aumento… per fortuna hanno riaperto la fabbrica e mi hanno impiegato un’altra volta.
– Io invece sono diventata infermiera. Lavoravo in ospedale, nello staff del dottor Costali, un neuropsichiatra che opera solo la testa, aveva tre dottori e quattro infermiere. Quando mi sono sposata, però, mio marito non ha voluto che andassi più. Ho fatto molta fatica a lasciare. Da lì ho messo in testa ai miei figli… uno è medico dei bambini, l’altro è veterinario, sta sempre nel campo con le mucche e anche l’altro…
Guardo oltre la vetrata che divide la stanza dal corridoio. Sulla parete una vecchia fotografia in bianco e nero, tanti uomini in posa, vestiti a festa, molti hanno i baffi. Le società di mutuo soccorso, numerose in Romagna come in Argentina, non davano solo sostegno economico ai propri iscritti. Si occupavano di promuovere la cultura e l’istruzione. Mia nonna aveva un unico rimpianto, quello di non avere potuto studiare. Marina è una donna grande. Riprende a raccontare di sé.
– E così quando i figli se ne sono andati all’università, uno a Tondil, l’altro a La Plata, l’altro… Io, come dicono qua, mi è girata la testa. Mi mancava la mia famiglia numerosa attorno alla tavola. Allora ho detto un giorno a mio marito: «Guarda, io da donna italiana testa dura, ne esco da sola. Basta con le pastiglie e i dottori, te mettimi su un negozio che io m’arrangio». E così ho iniziato a vendere la lana. Sono quindici anni che mia sorella Alda lavora con me, perché noi siamo abituate ya6 stare assieme. Hai capito? Quando lei è nata c’era un bombardamento, io avevo sei, sette anni, nostra mamma stava più di là che di qua. Mia nonna l’ha messa in un pezzo di stoffa e me l’ha data: «Tò! Fa quello che puoi!». Pesava un chilo e novecento.
– Da un chilo e novecento grammi quando è nata, adesso ne pesa quasi cento.
– Dai Tarcisio smettila!… Io mangiavo con l’Alda sempre in braccio. Sempre andavo sporca, perché mi faceva tutto addosso. E’ stata un po’ il mio giocattolo, poi la mia figlia. Diciamo così, è stata sempre la mia debolezza.
– E’ vero! Marina mi ha fatto un po’ da mamma, perché la vita di nostra madre è stata difficile. Lei era rimasta orfana. L’ha allevata un fratello più grande che aveva sette figli e sette fratelli e alla fine lei ha dovuto fare da bambinaia a tutti. Poi con una caduta le è presa una malattia al ginocchio. Dopo si è sposata. A casa di mio babbo erano contadini, anche lei doveva lavorare la terra. Poi è rimasta vedova, era molto giovane, con due figli e io che stavo per nascere.
Le due sorelle ora si guardano, come si interrogassero. Marina cerca, nel dialogo con Alda, di trovare spiegazioni alle scelte temerarie della loro mamma, considerando il suo carattere e gli avvenimenti.
– Quando è arrivata in Argentina non sapeva la lingua, non aveva buona salute, è dovuta andare a lavorare nelle case. Piangeva: «Perché siamo venuti qua?». Non avevamo i soldi per tornare, ma lei era dura e allora ha pensato di farsi la casa. L’argentino tipico la casa l’affittava. Se aveva pane, mate e carne stava bene, tranquillo.
– E’ vero, era dura. Come dicono qua: «le dita di una mia mano sono più dei baci che mi ha dato mia mamma». Però Marina, lo sai, se poteva non ci faceva mancare niente. Era difficile avere due, tre soldi per comprarci un vestito. Allora cosa faceva? Andava a setacciare la sabbia. Era un lavoro da uomo e la pagavano per metro. Ti ricordi Tarcisio?
– E’ come se la vedessi. Andava anche a scaricare i camion. E dopo, è ritornata in Italia per avere la pensione. Quando è stata là ha scoperto che le mancavano due mesi di contributi. Così ha lavorato come tuttofare in un albergo di Rimini, ed è tornata in Argentina pensionata.
– Nostra mamma ha sempre avuto contatti con l’Italia, perché c’avevamo lo zio prete, il fratello del babbo. Lui ci scriveva sempre. Telefonare in quel momento era una cosa proibitiva. Eh, Tarcisio, ti ricordi la prima volta che abbiamo sentito la voce dello zio per telefono? Dopo trent’anni, ah… è stata una cosa che non si può dire.
– Piangevo io… piangeva lui. Parlavamo sempre in dialetto.
Alda interrompe Tarcisio e riprende a parlare della madre.
– La nostra mamma è vissuta fino ai novant’anni. Non lasciava nemmeno che Dio dicesse: «Devi morire adesso». Quando ha deciso, l’hanno trovata morta nel suo letto, con il suo fazzolettino. Era stata bene ottant’anni, poi è stata dieci anni paralitica perché ha avuto un ictus. E’ caduta nella sua legge. E’ caduta accanto a una roulette del casinò. Lei metteva da parte soldi tutto l’anno perché l’estate andava a giocare a Mar del Plata o a Monte Ermoso. Affittava un appartamento con me e la mia famiglia e alla sera andava al casinò. Quella sera vinceva e dall’emozione le è preso un colpo.
Alda tace. La mia nonna, seduta su un letto d’ospedale, leggera e gracile, le mani appoggiate in grembo, i piedi a penzoloni, mi aveva detto: «E’ difficile anche morire». Tarcisio è perso nei suoi ricordi. Gli chiedo allora come è stato quel primo ritorno in Italia, a Cesena dove aveva lasciato la sua giovinezza.
– Morivo dalla voglia di tornare, ma non mi ero presentato al consolato quando avevo ricevuto la lettera dall’Italia per il servizio militare. Ero diventato disertore e per la legge italiana potevo essere arrestato fino a che compivo i quarantacinque anni. Così, con forza di volontà, ho aspettato ventotto anni, poi sono andato al consolato: «Mi stenda subito il passaporto». Scrissi allo zio prete, Don Secondo, che mi pagò il biglietto.
– Tarcisio era andato in Italia già due volte, l’Alda tre e io mai. Mio marito non mi lasciava andare, perché i figli erano piccoli, diceva. I suoi genitori erano italiani, ma lui non è mai uscito dall’Argentina. Un giorno lo zio prete mi scrive: «Marina ti mando il biglietto». Ho detto: «Io me ne vado» e sono partita con l’Alda. Quando sono tornata mi dice: «Cosa hai sentito te?», mi dice mio marito, «…quando sei andata su per la scala e sei sparita là?» e io: «Cosa vuoi che ti dica la verità o una bugia?». «No, dimmi la verità». «Guarda, ho sentito una liberazione». Erano passati trent’anni, trentacinque. Sono andata alla mia scuola, che è in viale Carducci. Sono entrata, come dicono qua, nel tunnel del tempo, e mi hanno dovuta portare via perché sono stata male: sentivo le voci delle suore, della mia maestra. Poi sono andata alla nostra casa a Porta Santi e ho cercato un buco nel portone sul cortile, glielo avevo fatto con Tarcisio quando eravamo piccoli, e c’era ancora! Ho cominciato a piangere quando siamo arrivati in centro o ho smesso quando sono arrivata a casa. Però era come la canzone: «Non son di qui, non son di là».
– E’ vero Marina, ognuno vorrebbe stare nei due posti allo stesso tempo.
– Per me invece è sempre festa quando siamo in Italia. Ogni cugino riunisce la sua famiglia e litigano tra loro per invitarci, che oggi tocca a me, domani a te. Mia cugina è venuta due volte in Argentina, mio cugino cinque, sei volte, poi c’è stato mio zio. I miei figli hanno conosciuto la Romagna.
– Te Alda sei fortunata. I miei figli, invece, per disgrazia non sono mai andati, né pensano nemmeno di andare. Sono ben argentini! Quando danno il campionato mondiale del football, che sento l’inno nazionale italiano, io piango e loro si prendono gioco di me.
– I miei figli e mia moglie invece sono sempre stati affettuosi con l’Italia. Il maschio sta aspettando la cittadinanza italiana, che sta in tramite, per andare a vivere là. Lui ha conosciuto il posto dove sono seppelliti i suoi antenati e anche i parenti che sono ancora vivi.
– Tarcisio, ti ricordi? In Italia, dopo la guerra, i nostri parenti erano scomparsi tutti, li avevano portati via i tedeschi. Un giorno, arando il campo, il vicino, un contadino ha visto la terra che andava giù, si faceva un buco e allora li ha incontrati tutti lì. Erano stati fucilati.
– Sì Alda, adesso c’è un monumento che li ricorda, ci sono stato con mio figlio. Anche il passato argentino però… noi i nostri figli abbiamo cercato di tenerli fuori dalla politica, perché qui in Argentina, oggi c’è un partito domani ce n’è un altro, ma la chiesa è sempre di destra, l’informazione la tiene la destra.
Alda interviene, ha necessità di raccontare alcuni fatti della sua famiglia, che ha sentito ripetere tante volte e che l’hanno segnata.
– Per esempio, il nostro zio, quello che stava a La Plata, era di sinistra. Un giorno, nel tempo di Peron, la polizia l’ha preso da casa e non si sapeva più dov’era. Quando è ritornato pesava venti chili in meno, l’avevano torturato.
– E lo sai Alda? Te l’ho già detto. Quando sono tornato in Italia ho scoperto che lo zio di La Plata figurava come fondatore del partito comunista di Gambettola. Suo babbo, il nostro nonno, era stato ucciso a botte dai fascisti. Lo zio, allora, per vendicarsi, il giorno del matrimonio di uno degli assassini, lo aspettò fuori dalla chiesa con un carro con tre cavalli. Quando uscì, lo prese con un lazo e lo trascinò per trecento metri, lasciandolo mezzo morto. Allora scappò in Francia e da lì venne all’Argentina.
Tarcisio tace. Mi sembra di vederlo quell’uomo in piedi sul carro. Marina, unica tra tutte le persone che ho incontrato nel mio viaggio, parla ora della dittatura militare e dei desaparecidos.
– Nel settantasei qua in Argentina sono arrivati i militari e hanno ammazzato migliaia di ragazzi.
– Sì, sono sparite più di trentamila persone.
– Erano tutti ragazzi tra i quindici e i venticinque anni, erano quasi tutti studenti. Venivano di notte e li portavano via dalle famiglie e non se ne sapeva più niente. A Bahia Blanca tanti… e li buttavano in mare vivi. Li ammazzavano.
Il capitano della Marina Militare Argentina Adolfo Scilingo, anche lui di Bahia Blanca, fu il primo a confessare: «Non credo che sia morto nessuno che aveva un’importanza tale da essere pericoloso… Sì, è vero che il paese era in una situazione caotica. Ma oggi posso dirle che sarebbe stato possibile trovare una soluzione diversa. (…) Una volta che l’aereo si allontanava da terra, il medico che era a bordo somministrava loro una seconda dose, un calmante molto potente. Si addormentavano completamente. (…) Non riesco a dimenticare l’immagine dei corpi nudi sistemati uno sopra l’altro nel corridoio dell’aereo come in un film sul nazismo. (…) venivano gettati dallo sportello posteriore, che si apre verso il basso.»7
Restiamo raccolti, ho le mani appoggiate sulle ginocchia. Siamo seduti su vecchie sedie di legno, conservate con cura. Gli oggetti, gli arredi, in Argentina non si gettano con facilità, spesso ancora si riparano.
1 Società Italiana di Mutuo Soccorso
2 i miei bambini, che non li vedo più
3 Un militante non è un eroe. Semplicemente vuole vivere. Semplicemente non si adatta ad accettare quello che altri hanno già deciso per la sua vita, per il suo futuro, per le sue modeste ambizioni, per la sua morte.
4 avevano
5mandriano
6 già
7 Horacio Verbitsky, Il volo, Fandango Tascabili, 2008, Roma, pp. 28, 52, 53